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 Un viaggio di guerra, da Piedimonte a Piscinola

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T O P I C    R E V I E W
salva_fiore Posted - 24/08/2011 : 16:03:07
Ho recuperato un bel racconto, edito in un libro, che narra di un viaggio eseguito sul nostro trenino nel periodo della guerra, da Piedimonte a Piscinola...

Il racconto che ho trovato, è stato scritto sessantasei anni fa... Finora è il più bel racconto di un viaggio, quasi completo(da Caiazzo a Piedimonte e da Piedimonte a Piscinola), che descrive uno scrocio di vita vissuta sul nostro treno durante un viaggio e per giunta narrato da uno scrittore. Bello!

E' un racconto autobiografico che descrive le varie peripezie e l’avventuroso viaggio sostenuto dallo scrittore Francesco Flora, mentre si spostava da Roma a Napoli nel periodo il 12-25 settembre 1943. Lo scrittore a quei tempi ricopriva la carica di Commissario Responsabile del Sindacato Nazionale degli Autori e Scrittori. Decise di lasciare Roma, subito dopo l’Armistizio, per recarsi presso la sua casa, a Napoli.

“Viaggio di fortuna”
di Francesco Flora.
Gentile Editore Milano, anno 1945

[…]
Capitolo VI. “Il Generale”
(Da pagina 77 a pagina 91)

Martedì, 14. Al mattino i nostri consiglieri, che sono erano albanti di noi, vengono subito ad offrirci la loro opera disincantata. Qualcuno ribadisce innanzitutto che, se la sera precedente, il treno da Napoli partito da Secondigliano, è giunto a Caiazzo, il ponte Annibale non è crollato. Andremo a parlare con il capostazione, e, se il treno delle nove e mezza passerà anch’esso, vorrà dire che il ponte è ancora intatto e si potrà tentare quella via.
Il treno infatti arriva: dunque io partirò oggi alle quattordici. Risalendo dalla stazione al paese, vedo camion tedeschi arrampicarsi sulla salita, mentre qualche conducente getta tabacco alla folla. Anche questo è frutto di un saccheggio. In piazza ci fan parlare con un viaggiatore che è giunto dalla volta di Napoli: un ufficiale in borghese. Racconta episodi terribili. I tedeschi a Napoli hanno fatto stragi e rapine. Poiché un marinaio italiano ha lanciato dall’Università una bomba su un carro di assalto nazista ferendo o uccidendo un ufficiale, hanno chiuso con carri armati tutti gli accessi tra San Giuseppe e il Rettifilo: han fatto scendere dalle case tutti gli inquilini: li hanno fatti schierare sui marciapiedi, e hanno incendiata l’università. Han quindi collocato tra le fiamme il misero marinaio, lo hanno freddato con la mitragliata. Più tardi han costretto la folla a incamminarsi fuori della città, e il giorno seguente, ad Aversa, dopo aver liberato le donne e i bambini, han compiuto le più feroci decimazioni. L’ufficiale racconta ancora di un minaccioso proclama del colonnello Scholl, ove si annunciava che per ogni tedesco ucciso verranno uccisi cento italiani.
Quando ha finito di raccontare queste e altre atrocità, il viaggiatore si rivolge a me e con voce insinuante, guardando anche Minuti, ci confida: - Tanto, io so che voi siete un generale, e il signore è un prefetto.
Neghiamo non senza stupore, naturalmente, e freniamo a stento il nostro riso, ma dagli sguardi dei presenti appare chiaro che sul conto nostri essi dividono l’opinione medesima del viaggiator, ed essi hanno fornito al nuovo arrivato quella preziosa informazione.
Non mi conosco aspetto marziale, anzi tropo più pacifico che la mia natura non comporti: tuttavia l’equivoco non mi diverte a lungo, sebbene certi fatti sembrano avere un loro presagio umoristico. Mi ricordo che a Milano un girono, entrati in una trattoria ove l’unica tavola vuota era presso la finestra, e gli spifferi giocavano alla rosa dei venti, l’amico Bernard che soffriva di un forte raffreddore, senza punto avvisarmi, si avvicinò a un tavolino ove due giovanissimi soldati s’accompagnavano al posto e disse loro a mezza voce: “Se potessero passare all’altra tavola, farebbero un piacere al generale che ha un grosso catarro e deve star riparato”. (Il generale ero io). I soldati scattarono in piedi e si avvicinarono alla tavola degli spifferi; ma più tardi ci guardavano non senza qualche sospetto.
Avevo deciso di partire alle due, ma una collera grossa mi aspettava, e subito me ne vergognai, pensando quando fosse futile quel cruccio tra tante angosce della guerra. Avevo dato da lavare la biancheria a una ragazza caiatina che doveva riportarmela per l’una: anche avevo dato da riparare e stirare il vestito modificato in quel viaggio; che troppo mi avviliva il sentirmi sudicio e il portar un bagaglio di roba sudicia: ma aspettai invano. A Caiazzo il tempo è distratto e bonario: gli orologi hanno misure molto condiscendenti verso chi li interroga. Io sentii fischiar il treno e seppi ch’era partito: la ragazza e il sarto non si erano ancora visti. D’un colpo, per quella sosta che poteva mutare le sorti del mio viaggio, si disabbellì ai miei occhi la ridente Caiazzo: non vidi l’ora di uscirne. Prendendo il treno delle sei e mezza sarei giunto verso Secondigliano a tarda notte, e per il coprifuoco non avrei potuto raggiungere Napoli se non il giorno seguente: forse sarei restato in aperta campagna alla mercé delle pattuglie tedesche e della rugiada notturna.
Forse anche, il treno delle due era l’ultimo che passava sul ponte Annibale. Duramente ringraziai il sarto e la ragazza di avermi fatto perdere quel treno: e il cruccio mi durò a lungo. Intanto per uscire da Caiazzo e far passare le ore che mi pesavano più che mai, decisi di andare fino alla stazione di Piedimonte col treno che giungeva da Secondigliano; Piedimonte è il capolinea: sarei ripartito da quel medesimo treno, e con la sicurezza di trovar posto, tanto più che al mattino alcuni viaggiatori di Caiazzo non avevano trovato modo di salire nel treno diretto a Napoli.
Scesi ben presto alla stazione. Minuti aspettava il cocchiere che lo avrebbe condotto fino a Cancello. Mi accompagnò e ci salutammo assai cordialmente, non senza sorridere ancora di quella diceria che ci nominava generale e prefetto.
Stetti qualche ora nella sala di aspetto della stazione. Ero solo: leggevo con una certa sonnolenza: mi facevan compagnia tre galline che nell’ampio spazio parevano giocassero sulle zampe elastiche calcando di proposito l’ombra sul pavimento: guardano le loro ali inerti, di cos’ brevi e basso volo: pensavo pesantemente, quasi per obbligo di trovare un significato a quel che vedevo, gli uomini che poco adoperavano la loro mente, come le galline poco adoperano le ali. Stanco ormai di leggere, m’ero messo in piedi sulla soglia perché mi’investisse il riflusso dell’aria tra le porte opposte, e altra gente era venuta ad aspettare il treno. S’aprirono dispute grandi sulla ritirata dei militari disarmati. Si raccontava di ufficiali superiori che avevano detto ai soldati di darsela a gambe, e per proprio conto s’erano vestiti in borghese ed erano spariti. Un giovane disse “Avevamo fatto prigionieri tedeschi,e ci fu dato ordine di lasciarli; il generale dichiarò di non voler grane”. Contro un ipotetico generale si appuntò l’irata eloquenza di uno dei presenti: parlava come se lo avesse innanzi, lo apostrofava, lo accusava, lo condannava, in una filippica e catilinaria la cui violenza soventissima era più di un tono e gesto che chi parola. Era un uomo apoplettico, e dalla faccia rossa per la fecondia e forse per il vino, pareva voler sparare gli occhi, come quei proiettili che un pittore futurista disegnò pronti al fuoco nelle orbite di Benito: “Ma tu, generale, hai il dovere di non andartene, di non cambiar vestito, di non metterti in borghese, tu, hai l’obbligo di farti uccidere sul posto; tu non sei come gli altri tu sei pagato per il tuo mestiere”.
Su questo tema quel rigido e indignato cittadino fece variazioni sempre più accalorate o verrei dire incandescenti, finché mi venne il sospetto che il generale a cui egli intendeva rivolgersi, sia pure in quella figurata indiretta maniera, fossi proprio io. E mi prese dapprima un’ilarità che a stento riuscii a dissimulare: poi il fastidio di quell’equivoco che quasi mi imponeva la parte del generale e la necessità di difenderlo. Ma difenderlo di cosa? Io ero d’accordo con quel tribuno, non perché il generale è pagato, ma perché è generale e deve dare l’esempio del sacrificio. Mi pareva ora che anche gli altri presenti facessero spola con gli occhi tra quel rauco arringatore e il generale Francesco Flora: e forse era soltanto la mia fantasia: ma il capostazione, al quale una mezz’ora prima avevo chiesto notizie sul ritardo del treno, venne ad avvertirmi che non mi conveniva ritornare da Piedimonte quella sera, perché il treno non avrebbe oltrepassato San’Angelo: mi consigliava di partir da Piedimonte la mattina seguente. Conversando mi invitò nel suo ufficio, e così fui sottratto da quel processo e quella requisitoria. Forse l’arringa non continuò: ormai non ci doveva essere più gusto.
Il treno per Piedimonte giunse sovraccarico; ma riuscii a prendere posto sulla veranda di uno scompartimento. Intravedevo il pavimento costellato di bucce di lupini, di nocelline americane e molt’altra lordura.
Ma la sera si avvicinava fresca, e il viaggio fu breve. A Piedimonte vidi l’acqua scorrere da fontane e da cascate e mi pareva un lavacro. La parlata mi ricordava la gente materna del vicino Molise. Una bambina di forse undici anni mi apparecchiò una tavola netta, in un punto dove giungeva appena la fioca luce di un lume elettrico; piegò una salvietta di carta a più mandate, con un indugio infantile, come giocasse a far barchette. Mi fu chiesto se volevo dormire in una camera da solo: risposi che certo volevo dormire da solo. Passai tra due letti di una stanza ove gli ospiti si accingevano a coricarsi, ed entrai in un’altra camera egualmente a due letti, ove però fui solo. Tra i due capezzali era un piccolo cassettone con due catini di ferro smaltato, colmi di acqua.
E prima che io dormissi, più che nei gironi passati, quando il limite tra il giorno e la notte era cancellato, mi fece compagnia il pensiero di mia madre, avviato dalla presenza di quell’aria molisana che ella respirò fanciulla. La notte, prima che io chiuda gli occhi al sonno, è il momento sacro della mia giornata: quello in cui invoco le persone che amo: quello in cui chiamo i miei morti per unirmi con essi in quella specie di estasi che è il distacco del sonno. La loro presenza da pace al cuore: e questa è la mia religione, la mia preghiera. E nel pensiero di mia madre ogni cruccio era domato, svanito dal cuore anche l’odio contro i barbari che insozzano l’Italia; ma più pungente e necessaria mi appariva la lotta contro essi, per vincere finalmente la brutale apologia della guerra e avviare il tempo in cui la guerra sia morta tra gli uomini.

Mercoledì, 15. – All’alba splende ancora la luna piena. IL fresco pensato delle acque scorrenti a Piedimonte avvolge e illimpidisce le cose: fa più fragranti anche le erbe odorose. Tutto il lutto d’Italia, la mia presente tristezza, quale io sento nell’animo, son cose addolciti: e la speranza di una guerra liberatrice mi conforta e mi ristora. Seduto, appoggio il braccio al finestrino del treno, e il viaggio comincia quieto, quasi leggero, sebbene sia già fitta la folla dei viaggiatori. La luna si fa sempre più labile, come disciolta: la sorprendo dietro un albero diventata quasi trasparente. Di stazione in stazione il vagone si gonfia al punto che ogni movimento è impedito: son premuto da ogni parte: mi restava libera una parte del finestrino, ma un soldato mi raccomandava perché lo faccia salire: non può più camminare, ha i piedi martoriati: siederà sulla mostra del finestrino. Aveva portato con sé un piccolo cane: ora lo ha lasciato con tristezza a due ragazzi. E un d’essi gli domanda: “Lo lasci a lui o a me?” – A chi lo tratta meglio – risponde il soldato.
Quando il treno si muove, anche il cane tenuto per una corda scatta verso il padrone, ma i ragazzi lo tengono forte. Abbaia, sembrava disperato. L’uomo gli fa addio con la mano, come ad una persona: - Povera bestia, era affezionata; ma io non la potevo più campare.
Una folla è salita sul tetto del treno, vedo le ombre proiettarsi mutilate sulle erbe polverose e i sassi al margine della strada, mentre si corre: i busti, le teste, il rapido mutare dei gesti, Penso, per contrasto, l’ombra netta del volo sui prati e sulle acque , guardando da un aereo: e anche penso la processione di San Gennaro con quei santi d’argento a mezzo busto che ondeggiano sulla calca. E mai, neppure nel disagio dei giorni innanzi, io ero soffocato da tanta folla e così rumorosa, pur sedendo a un angolo presso lo sportello.
D’un tratto s’ode il tetto scricchiolare e si vedono le sue liste di legno avvallarsi sotto l’enorme peso: un grido di spavento si leva dai sottostanti che temono di dover essere schiacciati.
Tanto gridano che il treno si ferma: e intanto alcuni reggono come cariatidi le strisce che gemono ma non crollano, e altri si proteggono la testa con le mani.
Il macchinista impassibile, saputa la ragione di quel gridare, rassicura i paurosi: “Non c’è pericolo: ne ho portati anche di più”.
Il viaggio riprende. Ecco il ponte Annibale sempre incolume: lo abbiamo superato, siamo a Santa Maria, ad Aversa, a Giugliano dai grandi meli, i cui rami carichi e grondanti sono sorretti alla cima dell’albero con funi robuste che lo fanno tutto simile a un carosello.
In ogni stazione altra gente s’è fatto il suo posto, che pareva impossibile; si appendono agli stipiti dei finestrini, sicché si teme che anche quel legno debba schiantarsi sotto il loro peso. Il viaggio che doveva durare tre ore, dura già da più di cinque, finché il treno giunto a Piscinola, si arresta per mancanza di corrente. Dopo un mezz’ora discendo. Cercherò la tranvia che da Piscinola muove a Napoli. Anche qui nuova folla: donne atterrite raccontano le orrende perquisizioni compiute dai tedeschi o le aspettano con visibile angustia. La folla conversa inquieta, addolorata, ma tuttavia senza quel sospetto delle spie che faceva reticente ogni crocchio nel livido tempo fascista: ora non c’è più bisogno di mentire. Ai militari il fattorino non chiede il biglietto di corsa: “Siete soldati, e allora non date audienza”: espressione non facilmente traducibile che qui vuol dire “Lasciate stare, non badate a pagare quel che gli altri devono pagare”.
Mi piace questa gentilezza. Il manovratore di cui non vedo la faccia, ma un nero chiomatissimo occipite che sembra scoppiare sotto il berretto, parla frenetico di fucilazioni e saccheggi, di resistenza nelle caserme, di bersaglieri eroici, di generali traditori, di inglesi tra la folla. Ma anche qui, nel penultimo tratto di viaggio, dalla Reggia di Capodimonte, la fortuna ci è amica: si vedono tedeschi nelle strade, innanzi alla fabbrica di birra, sul ponte della Sanità, ove mi par di toccare la dorata maiolica, innanzi la monumento che ricorda il colera e re Umberto (”A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore: vado a Napoli”), innanzi alla casa dove morì Giacomo Leopardi; ma non ci molestano, hanno certamente più gravi faccende che non siano quelle di badare a noi: forse vogliono farsi perdonare la ferocia dell’occupazione, forse temono. Napoli è tetra e li guarda con odio appena dissimulato: la città non sembra neppur godere la meraviglia del cielo e del sole, come non la gode chi è costretto a seguire una gara. Prendo ora la funicolare per il Vomero, a Montesanto: e quando finalmente ne esco, i dieci minuti mi sono parsi immobili, il viaggio è veramente finito. Sono giunto a casa. D’un tratto si levano le sirene dell’allarme. E ancora i cannoni e ancora le bombe, e alto nel cielo il volo fitto degli aeroplani; ma qui nessuno si muove; odo velocissime le scale di un pianoforte.
8   L A T E S T    R E P L I E S    (Newest First)
ROS Posted - 10/09/2011 : 12:32:30
Certo il clima era davvero diverso... Molto bello, grazie Salva!
ALn61 Posted - 06/09/2011 : 19:25:18
Caro Salva (e tutti i lettori) la ferrovia è stata regina in contrastata dei trasporti almeno fino agli inizi degli anni '70. Oggi le cose stanno cambiando. Sul numero di 4ruote di questo mese, si fa un raffronto sul viaggio RM-MI con i diversi mezzi di trasporto. Il Frecciarossa risulta di qualche decina di euro, in media, più costoso del viaggio in aereo e quest'anno ho constatato pure il maggior confort del traghetto sulle rotte Campania-Siciliaper l'auto basta che oltre al guidatore ci sia mezza persona che i costo col treno si equivalgono...e col nuovo orario tra qualche settimana all'Alifana taglieranno qualche corsa: staremo a vedere.
salva_fiore Posted - 06/09/2011 : 13:19:46
Sandro è così, le passioni e gli hobbies sono come l'amore, se si vuole che si mantengano a certi livelli, bisogna anche alimentarli e portare nuova linfa, altrimenti la passione muore...
Questo brano l'ho trascritto in biblioteca con biro e notes e poi l'ho battutto a casa al pc, ma il piacere di condividerlo con te e gli altri è ben piu grande della fatica fatta...
Hai notato quanta importanza aveva la ferrovia in quel periodo e come era elevata l'affluenza di passeggeri e, ancora, come viene ben descritta la cittadina di Piedimonte e l'idioma della tua gente?

Abbiamo appreso che la coincidenza tra la piedimonte e il tram a Piscinola era una cosa risaputa tra i viaggiatori, altrimenti lo scrittore non si avventurava "al buio", specie in quel periodo critico. E' stato bello leggere anche la scena ambientata nel tram, dove ho letto i commenti dei miei paesani sulla guerra e i bombardamenti... Insomma il brano è uno spaccato di vita narrato, e grazie allo scrittore Flora che ci ha permesso di conoscere quel clima a distanza di ben 66 anni...
Questa è la grandezza della scrittura, ...la poesia vince di mille secoli il silenzio...!
ALn61 Posted - 06/09/2011 : 13:05:27
Apprezzo molto la disponibilità di Salva nei confronti del Gruppo. Quando gli capita qualcosa di "Alifana" nelle sue mani, subito pensa a noi. Nel caso specifico è ammirevole anche la pazienza di trascriverci tutto questo raconto.
ferpas Posted - 05/09/2011 : 14:49:41
dovro stamparlo anche io
salva_fiore Posted - 04/09/2011 : 23:20:40

ALn61 Posted - 04/09/2011 : 21:48:34
E' talmente lungo che l'ho stampato per leggermelo con la calma che merita.
salva_fiore Posted - 04/09/2011 : 00:06:09
Ecco il racconto che ho trovato, è stato scritto sessantasei anni fa... Finora è il più bel racconto di un viaggio, quasi completo(da Caiazzo a Piedimonte e da Piedimonte a Piscinola), che descrive uno scrocio di vita vissuta sul nostro treno durante un viaggio e per giunta narrato da uno scrittore. Bello!

E' un racconto autobiografico che descrive le varie peripezie e l’avventuroso viaggio sostenuto dallo scrittore Francesco Flora, mentre si spostava da Roma a Napoli nel periodo il 12-25 settembre 1943. Lo scrittore a quei tempi ricopriva la carica di Commissario Responsabile del Sindacato Nazionale degli Autori e Scrittori. Decise di lasciare Roma, subito dopo l’Armistizio, per recarsi presso la sua casa, a Napoli.



“Viaggio di fortuna”
di Francesco Flora.
Gentile Editore Milano, anno 1945


[…]
Capitolo VI. “Il Generale”
(Da pagina 77 a pagina 91)

Martedì, 14. Al mattino i nostri consiglieri, che sono erano albanti di noi, vengono subito ad offrirci la loro opera disincantata. Qualcuno ribadisce innanzitutto che, se la sera precedente, il treno da Napoli partito da Secondigliano, è giunto a Caiazzo, il ponte Annibale non è crollato. Andremo a parlare con il capostazione, e, se il treno delle nove e mezza passerà anch’esso, vorrà dire che il ponte è ancora intatto e si potrà tentare quella via.
Il treno infatti arriva: dunque io partirò oggi alle quattordici. Risalendo dalla stazione al paese, vedo camion tedeschi arrampicarsi sulla salita, mentre qualche conducente getta tabacco alla folla. Anche questo è frutto di un saccheggio. In piazza ci fan parlare con un viaggiatore che è giunto dalla volta di Napoli: un ufficiale in borghese. Racconta episodi terribili. I tedeschi a Napoli hanno fatto stragi e rapine. Poiché un marinaio italiano ha lanciato dall’Università una bomba su un carro di assalto nazista ferendo o uccidendo un ufficiale, hanno chiuso con carri armati tutti gli accessi tra San Giuseppe e il Rettifilo: han fatto scendere dalle case tutti gli inquilini: li hanno fatti schierare sui marciapiedi, e hanno incendiata l’università. Han quindi collocato tra le fiamme il misero marinaio, lo hanno freddato con la mitragliata. Più tardi han costretto la folla a incamminarsi fuori della città, e il giorno seguente, ad Aversa, dopo aver liberato le donne e i bambini, han compiuto le più feroci decimazioni. L’ufficiale racconta ancora di un minaccioso proclama del colonnello Scholl, ove si annunciava che per ogni tedesco ucciso verranno uccisi cento italiani.
Quando ha finito di raccontare queste e altre atrocità, il viaggiatore si rivolge a me e con voce insinuante, guardando anche Minuti, ci confida: - Tanto, io so che voi siete un generale, e il signore è un prefetto.
Neghiamo non senza stupore, naturalmente, e freniamo a stento il nostro riso, ma dagli sguardi dei presenti appare chiaro che sul conto nostri essi dividono l’opinione medesima del viaggiator, ed essi hanno fornito al nuovo arrivato quella preziosa informazione.
Non mi conosco aspetto marziale, anzi tropo più pacifico che la mia natura non comporti: tuttavia l’equivoco non mi diverte a lungo, sebbene certi fatti sembrano avere un loro presagio umoristico. Mi ricordo che a Milano un girono, entrati in una trattoria ove l’unica tavola vuota era presso la finestra, e gli spifferi giocavano alla rosa dei venti, l’amico Bernard che soffriva di un forte raffreddore, senza punto avvisarmi, si avvicinò a un tavolino ove due giovanissimi soldati s’accompagnavano al posto e disse loro a mezza voce: “Se potessero passare all’altra tavola, farebbero un piacere al generale che ha un grosso catarro e deve star riparato”. (Il generale ero io). I soldati scattarono in piedi e si avvicinarono alla tavola degli spifferi; ma più tardi ci guardavano non senza qualche sospetto.
Avevo deciso di partire alle due, ma una collera grossa mi aspettava, e subito me ne vergognai, pensando quando fosse futile quel cruccio tra tante angosce della guerra. Avevo dato da lavare la biancheria a una ragazza caiatina che doveva riportarmela per l’una: anche avevo dato da riparare e stirare il vestito modificato in quel viaggio; che troppo mi avviliva il sentirmi sudicio e il portar un bagaglio di roba sudicia: ma aspettai invano. A Caiazzo il tempo è distratto e bonario: gli orologi hanno misure molto condiscendenti verso chi li interroga. Io sentii fischiar il treno e seppi ch’era partito: la ragazza e il sarto non si erano ancora visti. D’un colpo, per quella sosta che poteva mutare le sorti del mio viaggio, si disabbellì ai miei occhi la ridente Caiazzo: non vidi l’ora di uscirne. Prendendo il treno delle sei e mezza sarei giunto verso Secondigliano a tarda notte, e per il coprifuoco non avrei potuto raggiungere Napoli se non il giorno seguente: forse sarei restato in aperta campagna alla mercé delle pattuglie tedesche e della rugiada notturna.
Forse anche, il treno delle due era l’ultimo che passava sul ponte Annibale. Duramente ringraziai il sarto e la ragazza di avermi fatto perdere quel treno: e il cruccio mi durò a lungo. Intanto per uscire da Caiazzo e far passare le ore che mi pesavano più che mai, decisi di andare fino alla stazione di Piedimonte col treno che giungeva da Secondigliano; Piedimonte è il capolinea: sarei ripartito da quel medesimo treno, e con la sicurezza di trovar posto, tanto più che al mattino alcuni viaggiatori di Caiazzo non avevano trovato modo di salire nel treno diretto a Napoli.
Scesi ben presto alla stazione. Minuti aspettava il cocchiere che lo avrebbe condotto fino a Cancello. Mi accompagnò e ci salutammo assai cordialmente, non senza sorridere ancora di quella diceria che ci nominava generale e prefetto.
Stetti qualche ora nella sala di aspetto della stazione. Ero solo: leggevo con una certa sonnolenza: mi facevan compagnia tre galline che nell’ampio spazio parevano giocassero sulle zampe elastiche calcando di proposito l’ombra sul pavimento: guardano le loro ali inerti, di cos’ brevi e basso volo: pensavo pesantemente, quasi per obbligo di trovare un significato a quel che vedevo, gli uomini che poco adoperavano la loro mente, come le galline poco adoperano le ali. Stanco ormai di leggere, m’ero messo in piedi sulla soglia perché mi’investisse il riflusso dell’aria tra le porte opposte, e altra gente era venuta ad aspettare il treno. S’aprirono dispute grandi sulla ritirata dei militari disarmati. Si raccontava di ufficiali superiori che avevano detto ai soldati di darsela a gambe, e per proprio conto s’erano vestiti in borghese ed erano spariti. Un giovane disse “Avevamo fatto prigionieri tedeschi,e ci fu dato ordine di lasciarli; il generale dichiarò di non voler grane”. Contro un ipotetico generale si appuntò l’irata eloquenza di uno dei presenti: parlava come se lo avesse innanzi, lo apostrofava, lo accusava, lo condannava, in una filippica e catilinaria la cui violenza soventissima era più di un tono e gesto che chi parola. Era un uomo apoplettico, e dalla faccia rossa per la fecondia e forse per il vino, pareva voler sparare gli occhi, come quei proiettili che un pittore futurista disegnò pronti al fuoco nelle orbite di Benito: “Ma tu, generale, hai il dovere di non andartene, di non cambiar vestito, di non metterti in borghese, tu, hai l’obbligo di farti uccidere sul posto; tu non sei come gli altri tu sei pagato per il tuo mestiere”.
Su questo tema quel rigido e indignato cittadino fece variazioni sempre più accalorate o verrei dire incandescenti, finché mi venne il sospetto che il generale a cui egli intendeva rivolgersi, sia pure in quella figurata indiretta maniera, fossi proprio io. E mi prese dapprima un’ilarità che a stento riuscii a dissimulare: poi il fastidio di quell’equivoco che quasi mi imponeva la parte del generale e la necessità di difenderlo. Ma difenderlo di cosa? Io ero d’accordo con quel tribuno, non perché il generale è pagato, ma perché è generale e deve dare l’esempio del sacrificio. Mi pareva ora che anche gli altri presenti facessero spola con gli occhi tra quel rauco arringatore e il generale Francesco Flora: e forse era soltanto la mia fantasia: ma il capostazione, al quale una mezz’ora prima avevo chiesto notizie sul ritardo del treno, venne ad avvertirmi che non mi conveniva ritornare da Piedimonte quella sera, perché il treno non avrebbe oltrepassato San’Angelo: mi consigliava di partir da Piedimonte la mattina seguente. Conversando mi invitò nel suo ufficio, e così fui sottratto da quel processo e quella requisitoria. Forse l’arringa non continuò: ormai non ci doveva essere più gusto.
Il treno per Piedimonte giunse sovraccarico; ma riuscii a prendere posto sulla veranda di uno scompartimento. Intravedevo il pavimento costellato di bucce di lupini, di nocelline americane e molt’altra lordura.
Ma la sera si avvicinava fresca, e il viaggio fu breve. A Piedimonte vidi l’acqua scorrere da fontane e da cascate e mi pareva un lavacro. La parlata mi ricordava la gente materna del vicino Molise. Una bambina di forse undici anni mi apparecchiò una tavola netta, in un punto dove giungeva appena la fioca luce di un lume elettrico; piegò una salvietta di carta a più mandate, con un indugio infantile, come giocasse a far barchette. Mi fu chiesto se volevo dormire in una camera da solo: risposi che certo volevo dormire da solo. Passai tra due letti di una stanza ove gli ospiti si accingevano a coricarsi, ed entrai in un’altra camera egualmente a due letti, ove però fui solo. Tra i due capezzali era un piccolo cassettone con due catini di ferro smaltato, colmi di acqua.
E prima che io dormissi, più che nei gironi passati, quando il limite tra il giorno e la notte era cancellato, mi fece compagnia il pensiero di mia madre, avviato dalla presenza di quell’aria molisana che ella respirò fanciulla. La notte, prima che io chiuda gli occhi al sonno, è il momento sacro della mia giornata: quello in cui invoco le persone che amo: quello in cui chiamo i miei morti per unirmi con essi in quella specie di estasi che è il distacco del sonno. La loro presenza da pace al cuore: e questa è la mia religione, la mia preghiera. E nel pensiero di mia madre ogni cruccio era domato, svanito dal cuore anche l’odio contro i barbari che insozzano l’Italia; ma più pungente e necessaria mi appariva la lotta contro essi, per vincere finalmente la brutale apologia della guerra e avviare il tempo in cui la guerra sia morta tra gli uomini.

Mercoledì, 15. – All’alba splende ancora la luna piena. IL fresco pensato delle acque scorrenti a Piedimonte avvolge e illimpidisce le cose: fa più fragranti anche le erbe odorose. Tutto il lutto d’Italia, la mia presente tristezza, quale io sento nell’animo, son cose addolciti: e la speranza di una guerra liberatrice mi conforta e mi ristora. Seduto, appoggio il braccio al finestrino del treno, e il viaggio comincia quieto, quasi leggero, sebbene sia già fitta la folla dei viaggiatori. La luna si fa sempre più labile, come disciolta: la sorprendo dietro un albero diventata quasi trasparente. Di stazione in stazione il vagone si gonfia al punto che ogni movimento è impedito: son premuto da ogni parte: mi restava libera una parte del finestrino, ma un soldato mi raccomandava perché lo faccia salire: non può più camminare, ha i piedi martoriati: siederà sulla mostra del finestrino. Aveva portato con sé un piccolo cane: ora lo ha lasciato con tristezza a due ragazzi. E un d’essi gli domanda: “Lo lasci a lui o a me?” – A chi lo tratta meglio – risponde il soldato.
Quando il treno si muove, anche il cane tenuto per una corda scatta verso il padrone, ma i ragazzi lo tengono forte. Abbaia, sembrava disperato. L’uomo gli fa addio con la mano, come ad una persona: - Povera bestia, era affezionata; ma io non la potevo più campare.
Una folla è salita sul tetto del treno, vedo le ombre proiettarsi mutilate sulle erbe polverose e i sassi al margine della strada, mentre si corre: i busti, le teste, il rapido mutare dei gesti, Penso, per contrasto, l’ombra netta del volo sui prati e sulle acque , guardando da un aereo: e anche penso la processione di San Gennaro con quei santi d’argento a mezzo busto che ondeggiano sulla calca. E mai, neppure nel disagio dei giorni innanzi, io ero soffocato da tanta folla e così rumorosa, pur sedendo a un angolo presso lo sportello.
D’un tratto s’ode il tetto scricchiolare e si vedono le sue liste di legno avvallarsi sotto l’enorme peso: un grido di spavento si leva dai sottostanti che temono di dover essere schiacciati.
Tanto gridano che il treno si ferma: e intanto alcuni reggono come cariatidi le strisce che gemono ma non crollano, e altri si proteggono la testa con le mani.
Il macchinista impassibile, saputa la ragione di quel gridare, rassicura i paurosi: “Non c’è pericolo: ne ho portati anche di più”.
Il viaggio riprende. Ecco il ponte Annibale sempre incolume: lo abbiamo superato, siamo a Santa Maria, ad Aversa, a Giugliano dai grandi meli, i cui rami carichi e grondanti sono sorretti alla cima dell’albero con funi robuste che lo fanno tutto simile a un carosello.
In ogni stazione altra gente s’è fatto il suo posto, che pareva impossibile; si appendono agli stipiti dei finestrini, sicché si teme che anche quel legno debba schiantarsi sotto il loro peso. Il viaggio che doveva durare tre ore, dura già da più di cinque, finché il treno giunto a Piscinola, si arresta per mancanza di corrente. Dopo un mezz’ora discendo. Cercherò la tranvia che da Piscinola muove a Napoli. Anche qui nuova folla: donne atterrite raccontano le orrende perquisizioni compiute dai tedeschi o le aspettano con visibile angustia. La folla conversa inquieta, addolorata, ma tuttavia senza quel sospetto delle spie che faceva reticente ogni crocchio nel livido tempo fascista: ora non c’è più bisogno di mentire. Ai militari il fattorino non chiede il biglietto di corsa: “Siete soldati, e allora non date audienza”: espressione non facilmente traducibile che qui vuol dire “Lasciate stare, non badate a pagare quel che gli altri devono pagare”.
Mi piace questa gentilezza. Il manovratore di cui non vedo la faccia, ma un nero chiomatissimo occipite che sembra scoppiare sotto il berretto, parla frenetico di fucilazioni e saccheggi, di resistenza nelle caserme, di bersaglieri eroici, di generali traditori, di inglesi tra la folla. Ma anche qui, nel penultimo tratto di viaggio, dalla Reggia di Capodimonte, la fortuna ci è amica: si vedono tedeschi nelle strade, innanzi alla fabbrica di birra, sul ponte della Sanità, ove mi par di toccare la dorata maiolica, innanzi la monumento che ricorda il colera e re Umberto (”A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore: vado a Napoli”), innanzi alla casa dove morì Giacomo Leopardi; ma non ci molestano, hanno certamente più gravi faccende che non siano quelle di badare a noi: forse vogliono farsi perdonare la ferocia dell’occupazione, forse temono. Napoli è tetra e li guarda con odio appena dissimulato: la città non sembra neppur godere la meraviglia del cielo e del sole, come non la gode chi è costretto a seguire una gara. Prendo ora la funicolare per il Vomero, a Montesanto: e quando finalmente ne esco, i dieci minuti mi sono parsi immobili, il viaggio è veramente finito. Sono giunto a casa. D’un tratto si levano le sirene dell’allarme. E ancora i cannoni e ancora le bombe, e alto nel cielo il volo fitto degli aeroplani; ma qui nessuno si muove; odo velocissime le scale di un pianoforte.

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